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Quando l’Amore Condizionato Crea gli Strumenti per Salvare una Generazione

Articolo 0 – Serie Foundation: La Storia Personale Dietro una Metodologia Evolutiva

“La fortuna assiste le menti preparate” – Louis Pasteur

Questa è la storia di come l’amore condizionato dei miei genitori mi ha preparato involontariamente a riconoscere gli strumenti per proteggere una generazione.


“Papà, mi racconti qualcosa?”

Una sera di dicembre, Canton Ticino. L’odore di minestrone nell’aria – quella ricetta di famiglia con i legumi che resiste alle generazioni come un meme culinario ticinese – le luci soffuse del salotto, mia figlia di 4 anni che faticava ad accettare l’arrivo del fratellino di 1 anno seduto nel seggiolone accanto a lei.

Il piccolo sbatteva il cucchiaino contro il vassoio di plastica azzurra, producendo quel ritmo metallico che ogni genitore delle valli ticinesi impara a riconoscere come preludio al pianto. Lei lo guardava con quell’espressione universale – la stessa che Pievani descriverebbe come “stupore adattivo” – di chi sa che la sua vita è cambiata per sempre, ma non sa ancora se in meglio o in peggio.

In quella cucina ticinese, circondata dal paesaggio montano che ha ospitato famiglie per millenni, si stava ripetendo la danza evolutiva eterna: una giovane mente umana che impara a navigare la complessità sociale attraverso curiosità e narrazione. Come innumerevoli sere simili in innumerevoli case attraverso la storia dell’Homo sapiens.

“Papà, mi racconti qualcosa?” La sua voce aveva quel tono particolare – non capricciosa, ma genuinamente curiosa – che emergeva solo durante le cene caotiche quando cercavamo disperatamente di mantenere una parvenza di “conversazione bilaterale” mentre uno di noi imboccava il piccolo e l’altro poteva finalmente dedicarle attenzione completa.

Le cene erano diventate il nostro momento più naturale di connessione. A turno, io e la mia compagna designavamo chi avrebbe gestito l’indomabile nel seggiolone; l’altro poteva così raccontare senza interruzioni continue. Il “raccontami una storia” aveva iniziato con le solite favole di cui, ahimé, aveva già ottima conoscenza – ogni sfumatura, ogni voce, ogni finale prevedibile. Siamo passati ai ricordi di quando papà e mamma erano piccoli, alle sbadataggini più divertenti della nostra crescita, a tutto il repertorio raccontabile che ogni genitore accumula.

Quando le idee iniziarono a scarseggiare, mi aggrappai al contesto immediato che la circondava. Il teatrino de “Il re leone” dominava la stanza dei bambini: la Rupe dei Re ricreata con un materasso sporgente accanto alla culla, l’asta autoreggente per asciugamani trasformata nel bastone di Rafiki per il gioco simbolico. Avevamo appena traslocato, la casa era ancora un caos organizzato di scatole semi-vuote e mobili posizionati provvisoriamente. Contesto perfetto per l’immaginazione di una bambina che vedeva avventure epiche nei nostri disordini domestici.

Probabilmente furono questi ingredienti contestuali – la savana improvvisata nel salotto, il gatto che interpretava involontariamente Timon, il fratellino che con i suoi versetti poteva facilmente essere Simba cucciolo – a farmi scegliere di raccontarle di quando noi umani eravamo le “schiappe della savana”.

Nel mio rigore intellettuale (che la mia compagna chiama affettuosamente “autismo”), avevo preso il “raccontami una storia” alla lettera. Più storia di così non si può, pensavo, mentre vedevo il suo sguardo divertito e leggermente preoccupato – quel mix di “mi piace dove sta andando” e “ti sei messo in un gran casino, lo sai vero?”

Mia figlia, caritatevole come solo i bambini sanno essere quando intuiscono che un adulto si è spinto oltre la propria comfort zone, mi diede una possibilità. Invece di ignorare la mia storia per innumerevoli motivi legittimi o bombardarmi di domande che mi avrebbero costretto a battere in ritirata, partì da un accessibile e logico: “Ma papà, cosa vuol dire schiappa?”

Avevo appigli sufficienti per parlare di svariate cose nei minuti successivi, creando una conversazione alla sua portata su argomenti che, per altro, mi appassionano profondamente. Sul mio piano intellettuale, trovare modalità per rendere accessibili questi concetti a una bambina della sua età era diventato un esercizio stimolante e affascinante.

“Dunque, una schiappa è…” iniziai, e poi, vedendo i suoi occhi curiosi: “Ti chiederai cosa c’entra questo con la Savana di Simba, giusto?”

In un modo o nell’altro iniziai a descrivere il balzo evolutivo più notevole della storia umana: da mangiatori di midollo che aspettavano cautamente il loro turno dopo i grandi predatori e i saprofagi, a una specie che improvvisamente poteva permettere a un bambino di radere al suolo l’intera savana attraverso la semplice manipolazione di una pietra focaia, plasmando l’ambiente oltre ogni proporzione rispetto al nostro potere fisico reale.

Improvvisamente realizzai che attraverso questo “framework evolutivo della storia” – adottando cioè un approccio storico-scientifico – avevo a portata di mano una struttura narrativa elastica¹ che mi permetteva di toccare con la delicatezza delle storie tanti argomenti per lei estremamente significativi e attuali.

I racconti avevano un potere che, nonostante la professione che svolgo, non avevo ancora compreso completamente.

Nel corso della fine dell’anno scolastico mia figlia aveva sviluppato paure inspiegabili e terrificanti: teste che uscivano dai gabinetti, mostri che la terrorizzavano durante le ore notturne quando la casa diventava un labirinto di ombre minacciose. Un compagno della scuola dell’infanzia le aveva raccontato di “Skibidi toilet” – uno di quei meme digitali che si diffondono tra i bambini con la velocità e l’efficacia di virus cognitivi.

Le ricerche in neuroscienze dello sviluppo (Casey et al., 2005) documentano che la corteccia prefrontale raggiunge la maturazione completa intorno ai 25 anni, rendendo i bambini neurologicamente più vulnerabili alla distinzione finzione-realtà. In questo momento realizzai che stavo osservando un case study empirico della neotenia cognitiva umana: il cervello di mia figlia mostrava le caratteristiche di sviluppo prolungato che la letteratura scientifica (Gould, 1977) identifica come tratto distintivo della specie umana. La specie bambina che Pievani (2019) descrive non rappresentava una metafora poetica – costituiva neurobiologia osservabile direttamente in tempo reale, sebbene questa connessione richieda validazione sistematica oltre l’osservazione personale.

Altri appigli perfetti per raccontare altri aneddoti evolutivi e promuovere chiarezza.

“Amore mio, grazie che me lo hai detto.” le dicevo mentre la vedevo tremare sotto le coperte, “Sai, si ha paura perché noi tutti abbiamo conservato una mente da ‘schiappe della savana’. Noi umani non siamo sempre stati i dominatori. Per milioni di anni siamo stati prede, e il nostro cervello mantiene ancora quelle paure antiche programmate dentro la nostra testa.” E ancora: “Avere paura è una forma di protezione. Significa che i tuoi allarmi evolutivi funzionano perfettamente; so che ti sembra tutto assurdo adesso, ma vedrai che insieme impareremo a controllare le tue paure.”

Lei ascoltava affascinata – con quello sguardo concentrato che hanno solo i bambini quando intuiscono che stanno ricevendo informazioni importanti – mentre le spiegavo come eravamo diventati dominatori planetari: la conquista del fuoco, lo sviluppo del linguaggio simbolico, l’apprendimento della cooperazione, le migrazioni. E lentamente, comprendendo le radici evolutive profonde della paura del “mostro sotto al letto” – che altro non è che l’istinto ancestrale di temere predatori notturni mentre dormivamo rifugiati sugli alberi – riusciva a calmarsi e ad addormentarsi serena.

Il “raccontami una storia” dilatava i tempi dei pasti, ma era anche l’unico momento in cui riusciva a stare tranquilla emotivamente, permettendomi di gestire la tensione familiare mentre nutriva la sua curiosità naturale. Ma non sapevo ancora che quelle storie stavano gettando le fondamenta per qualcosa di molto più grande e importante.

Poi, una sera, arrivò la prima domanda che avrebbe cambiato tutto: “Papà, chi è Gesù?”

“È il personaggio principale di un libro molto famoso”, risposi con quella semplicità diretta che solo la sincerità completa con i propri figli rende possibile.

Settimane dopo, la seconda ondata di curiosità. Evidentemente mia figlia aveva confrontato la mia risposta con quello che sentiva dai suoi coetanei: “Papà, Giulio ha detto di aver visto Gesù per davvero. Tu lo hai mai visto?”

[…] Parlavamo della nonna che credeva profondamente in Gesù, e lei poneva domande acute sulle mie posizioni, riconoscendo in parte – e spero non mi si ritorca contro un giorno – che a un figlio è data facoltà di dissentire dal proprio genitore su questioni importanti. Affrontava le paure più strane con quella naturalezza disarmante che caratterizza solo i bambini. Era chiaro che stava cercando di assemblare vari pezzi informativi provenienti da fonti diverse. Stava elaborando versioni conflittuali della realtà attraverso il suo processo di ragionamento emergente.

Un giorno, però, decisi di rovesciare i ruoli della nostra routine serale. “Oggi racconta tu qualcosa a me”, le proposi.

E invece di una storia, iniziarono a piovere domande sempre più profonde e sofisticate.

Fino a quella sera in cui arrivò la domanda che avrebbe scardinato trent’anni di certezze faticosamente conquistate: “Ma papà, se Giulio non ha ragione, e non veniamo tutti da Gesù, allora da dove veniamo noi esseri umani?”

Il mondo si fermò. Il cucchiaio rimase sospeso a metà strada verso la mia bocca, il minestrone che gocciolava lentamente. Non stavo guardando semplicemente una bambina curiosa che faceva domande.

Stavo osservando quattro miliardi di anni di evoluzione biologica che spontaneamente sviluppavano curiosità scientifica in una bambina che non aveva mai sentito parlare di Darwin, che non conosceva la parola “evoluzione”, ma che ascoltando le mie spiegazioni eterogenee aveva imparato istintivamente a usare la congiunzione ipotetica “se” per formulare domande investigative mirate.

In quel momento preciso, le evidenze empiriche convergevano verso una comprensione della neotenia narrativa umana: una specie biologicamente caratterizzata da prolungamento dello sviluppo che mantiene curiosità e capacità di apprendimento (Bjorklund, 1997). Tuttavia, è importante notare che questa interpretazione dell’osservazione personale rappresenta un caso studio aneddotico che richiede validazione attraverso ricerca sistematica. La mia interpretazione che il pensiero scientifico emerga naturalmente quando la neuroplasticità infantile incontra narrativa evolutiva rimane un’ipotesi interessante ma non ancora sufficientemente testata per essere considerata oltre lo stadio di osservazione preliminare.

Istintivamente sapeva che poteva esserci una spiegazione migliore di quella fornita dal suo coetaneo; stava chiedendo aiuto per inquadrare correttamente la situazione, perché qualcosa le sfuggiva nella mappatura della realtà.

E in quel momento ho riconosciuto qualcosa di significativo: questa bambina dimostrava naturalmente competenze cognitive sofisticate che molti adulti (io compreso) devono o hanno dovuto ricostruire attraverso percorsi complessi di sviluppo personale.

La prigione memetica invisibile

Richard Dawkins mi ha insegnato che le idee si comportano esattamente come organismi viventi². I meme – le unità di trasmissione culturale – non sopravvivono perché sono veri, ma perché sono efficaci nel replicarsi di mente in mente. Sono cresciuto in una famiglia dove esisteva una regola mai esplicitata, ma riconoscibile per un bambino attento: per essere amato completamente, dovevo aderire completamente al sistema di credenze familiare.

Era quello che Carl Rogers definisce “considerazione positiva condizionata” – amore che dipende dal soddisfacimento di condizioni specifiche³. Ogni bambino ha il bisogno biologico fondamentale di sentirsi amato incondizionatamente per quello che è. Ma quando l’amore viene condizionato all’adesione ideologica, qualcosa si modifica significativamente nel sistema cognitivo in sviluppo. Bessel van der Kolk documenta come questo tipo di trauma possa paradossalmente sviluppare “capacità cognitive compensatorie” – competenze investigative superiori che emergono come meccanismo di sopravvivenza⁴.

È importante riconoscere i limiti metodologici di questa interpretazione retrospettiva. L’analisi di esperienze personali attraverso strutture teoriche psicologiche contemporanee presenta rischi di sovra-interpretazione e bias confermativo. Le correlazioni tra esperienze infantili e sviluppo cognitivo adulto necessitano di validazione attraverso studi controllati e campioni più ampi prima di poter essere generalizzate. La ricerca scientifica richiede cautela epistemologica: quello che appare come causa-effetto nella ricostruzione biografica potrebbe essere correlazione spuria o semplificazione retrospettiva.

La religione di famiglia era un significativo esempio di quello che Dawkins chiama “meme virulento”: si era evoluta per millenni sviluppando strategie sofisticate per la propria sopravvivenza e replicazione. Controllo sociale esteso, isolamento sistemico dai “portatori” di memi concorrenti, amore condizionato per garantire la fedeltà assoluta dell’ospite, paura dell’apostasia per prevenire qualsiasi forma di defezione. Ogni meccanismo era stato selezionato evolutivamente per assicurare la trasmissione efficace del meme religioso nelle generazioni successive.

Non importava se le credenze corrispondevano alla realtà osservabile – importava solo che si trasmettessero efficacemente sfruttando i nostri bisogni psicologici più profondi.

Il problema era che l’ideologia familiare si scontrava quotidianamente con quello che osservavo nel mondo reale. Quello che Telmo Pievani chiama “paradigma indiziario” – raccogliere evidenze sistematicamente, formulare ipotesi testabili, verificare attraverso osservazione, adattare le teorie ai dati invece del contrario – era esattamente l’opposto di quello che mi veniva richiesto nell’ambiente domestico⁵.

L’ideologia religiosa richiedeva fede incondizionata; l’approccio scientifico richiedeva costante verifica empirica. Queste modalità cognitive sembravano incompatibili, e l’evidenza empirica appariva più coerente con l’osservazione diretta della realtà.

I miei compagni di classe non sembravano destinati alla distruzione imminente profetizzata dalla dottrina familiare. I miei insegnanti non sembravano agenti del male cosmico. La scienza che studiavo sui libri di scuola raccontava una storia dell’universo che non solo non coincideva con quella che sentivo a casa, ma la contraddiceva sistematicamente su ogni punto verificabile.

Ero letteralmente spaccato a metà, cognitivamente frammentato.

La scelta a quattordici anni: decostruzione di un sistema memetico

Durante l’adolescenza, ho preso una decisione significativa: allontanarmi dal sistema di credenze familiare per esplorare approcci alternativi alla comprensione della realtà.

Retrospettivamente, questo processo può essere inquadrato in quello che Dawkins definisce “critical thinking evolutivo”: valutare le credenze sulla base delle evidenze disponibili piuttosto che accettarle per autorità⁶. Il paradigma religioso familiare si basava su una serie di assunti fondamentali che non reggevano il confronto sistematico con la realtà osservabile attraverso metodi scientifici.

Ma demolire un sistema di credenze non è come buttare via un vestito diventato troppo piccolo – significa decostruire metodicamente l’intera mappa mentale che usi per navigare la realtà sociale, emotiva e cognitiva; significa fare i conti con un vuoto identitario che si forma nel momento stesso in cui si abbandonano le credenze.

Non c’erano libri proibiti letti di nascosto in soffitta. Non c’erano scoperte intellettuali segrete che mi avevano illuminato improvvisamente. C’era semplicemente un adolescente che non riusciva più a sopportare di non essere accettato incondizionatamente per quello che era, indipendentemente dalle sue ideologie.

Nelle organizzazioni religiose chiuse, ogni aspetto della vita quotidiana viene regolamentato minuziosamente: come ti pettini, come ti vesti, chi puoi frequentare socialmente, quanto tempo puoi passare con persone “del mondo” esterno. Niente sport al di fuori del gruppo controllato, niente attività ricreative che potrebbero esporti a modalità di vita diverse da quella che fino ad allora era stata l’unica possibile per me. Vieni visto con diffidenza se ti ingaggi in studi post-onbbligatori anziché dedicare tempo ed energia per servire il culto. Proibito confrontarsi con chi ha un’opinione negativa del culto.

Ma il controllo più profondo e pervasivo era quello ideologico: non potevi nemmeno discutere intellettualmente se abbracciare o meno visioni del mondo alternative.

A quattordici anni, ho detto no a tutto questo sistema. E mi sono ritrovato completamente solo, incompreso, costantemente pressato da una famiglia che voleva disperatamente il ritorno del figliol prodigo. Loro erano sicuri che non sarei durato molto “là fuori”, da solo, in un mondo che – secondo la loro interpretazione – non sapevo né leggere né interpretare correttamente senza la guida della dottrina religiosa.

Smontare questo paradigma ha significato decostruire non solo le credenze specifiche, ma l’intero sistema di trasmissione memetica. Demolire sistematicamente le tecniche di manipolazione psicologica che rendevano il meme religioso così efficace nella sua replicazione. Sviluppare resistenza cognitiva attiva contro future infezioni memetiche.

La religione non era “sbagliata” in senso morale assoluto – era semplicemente un meme che aveva evoluto strategie estremamente efficaci per la propria sopravvivenza evolutiva, indipendentemente dall’impatto significativo sull’autonomia cognitiva dell’ospite.

L’abbraccio della contingenza: tutto poteva andare diversamente

Telmo Pievani mi ha insegnato la lezione più liberatoria e al tempo stesso più significativa della scienza moderna: tutto è radicalmente contingente⁷. L’evoluzione biologica non segue una direzione predeterminata, non tende verso un progresso inevitabile, non segue alcun piano cosmico. Ogni emergenza evolutiva – dalla vita cellulare stessa alla coscienza umana complessa – è il risultato di una serie statisticamente improbabile di coincidenze che potevano andare in miliardi di modi completamente diversi.

La mia storia familiare non era il risultato di un disegno cosmico superiore. Era pura serendipità evolutiva: i meme religiosi avevano incontrato una famiglia particolarmente ricettiva in un momento storico specifico, in un contesto sociale che favoriva questo tipo di colonizzazione cognitiva. Tre generazioni consecutive erano state “infettate” non per volontà divina, ma per caso evolutivo puro.

Il paradigma indiziario di Pievani ha demolito sistematicamente il mio bisogno psicologico di trovare significati nascosti o modello teleologici negli eventi della mia vita. Invece di interpretare simbolicamente, ho imparato a osservare empiricamente. Invece di cercare modello finalistici, ho iniziato a raccogliere evidenze neutralmente. La metodologia dell’ignoranza scientifica: ammettere che non sappiamo, formulare ipotesi testabili, raccogliere dati sistematicamente, adattare le teorie ai fatti invece del contrario.

Rigore metodologico significa distinguere rigorosamente quello che accade oggettivamente da quello che vorremmo soggettivamente che accadesse. Finitudine epistemologica significa accettare che la nostra comprensione è sempre incompleta e provvisoria. Imperfezione sistemica significa che tutti i nostri sistemi di credenze – incluso quello scientifico – sono approssimazioni imperfette da sottoporre costantemente a verifica empirica.

L’evoluzione mi aveva fornito un cervello capace di ricerca scientifica per puro accidente statistico. Non c’era nessun destino che mi guidava verso la verità – solo meccanismi cognitivi emersi originariamente per sopravvivenza che, in determinate circostanze ambientali specifiche, potevano casualmente produrre conoscenza verificabile.

Pievani mi ha rivelato che tutto ciò che crediamo di sapere è contingente – potrebbe essere diverso, potrebbe non esserci affatto. Questo approccio anti-teleologico rigoroso ha contribuito in modo consistente alla dissoluzione del mio bisogno residuo di trovare un “senso superiore” negli eventi: ho imparato a distinguere l’osservazione pura dall’interpretazione soggettiva, i fatti verificabili dai desideri psicologici, quello che accade realmente da quello che vorremmo che accadesse per sentirci meglio.

La lunga strada verso la libertà intellettuale

Per anni ho resistito alle pressioni familiari. Durante un periodo di oltre vent’anni, ho sopportato pressioni costanti e sistematiche, tentativi di riconversione emotiva, amore offerto esclusivamente a condizione del mio ritorno all’ortodossia religiosa.

Quando finalmente ho potuto vivere autonomamente, per la prima volta ho potuto scegliere liberamente cosa avere sui miei scaffali personali.

E lì, finalmente “adulto” e completamente indipendente, ho trovato il coraggio di aprire libri che fino ad allora avevo creduto fossero letteralmente il biglietto d’invito per accogliere forze malefiche nella mia esistenza.

Ricordo distintamente la prima volta che ho aperto “Il Gene Egoista” di Richard Dawkins⁸. C’era qualcosa di surreale nel rendermi conto che non era un libro pericoloso o minaccioso. Era semplicemente un libro che spiegava con chiarezza scientifica come funziona la vita su questo pianeta. Ma per ventun anni consecutivi avevo creduto che pensare diversamente dalla dottrina familiare fosse una forma di tradimento cosmico.

Dawkins mi ha fornito qualcosa di prezioso oltre ogni misura: una struttura concettuale scientifica rigorosa per comprendere come nascono e si diffondono le credenze umane. I “meme” – le idee che si replicano di mente in mente esattamente come i geni si replicano di corpo in corpo – mi hanno fatto comprendere qualcosa di fondamentale sulla natura della cognizione umana.

E stranamente, invece di diminuire il senso di meraviglia che provavo verso l’esistenza umana, questa consapevolezza scientifica lo amplificava. Per la prima volta, Darwin non stava rubando il miracolo dell’essere umano. Lo stava rivelando.

In quel momento preciso, mi sono innamorato perdutamente della scienza.

Non dell’idea romantica della scienza, non della scienza come istituzione accademica, ma della scienza come modello positivo di convivenza con l’ignoto, come laboratorio di umiltà intellettuale, dove tutto ciò che ha un riscontro empirico è vero fino a prova contraria. Mi sono innamorato di quella capacità unica che ha la ricerca scientifica di rivelare connessioni nascoste tra fenomeni apparentemente scollegati, di mostrare come tutto nell’universo sia interconnesso attraverso leggi eleganti e verificabili. Mi sono innamorato della capacità della scienza di “mettere gli esseri umani – e il loro ego – al loro posto”, ricordandoci che siamo esseri precari e finiti. Mi sono innamorato della scienza vista come pratica intellettuale che accorpa in sé un ragionevole scetticismo unito al senso di meraviglia.

La scienza che la mia famiglia ha da sempre screditato non distruggeva il senso di meraviglia – lo moltiplicava, rivelando che la realtà è infinitamente più affascinante, complessa e sorprendente di qualsiasi storia che potessimo inventarci.

Non solo le credenze hanno una loro evoluzione darwiniana autonoma, ma spesso i meme più virali e diffusi sono precisamente quelli che sfruttano sistematicamente le nostre paure primitive ancestrali invece di fornirci informazioni accurate sulla realtà. La religione di famiglia non sopravviveva perché era vera empiricamente, ma perché aveva sviluppato meccanismi sofisticati per replicarsi efficacemente: controllo sociale, amore condizionato, paura dell’isolamento, promesse di salvezza eterna.

Il framework di Dawkins – ironia della storia, proprio colui che aveva coniato il termine “meme” – offriva strumenti metodologici per analizzare come i sistemi di credenze si trasmettono e si replicano attraverso le generazioni familiari, replicandosi attraverso meccanismi che sfruttavano i nostri bisogni psicologici più profondi e vulnerabili.

Il gene egoista aveva un equivalente culturale: il meme egoista. E io ero stato l’ospite inconsapevole di un sistema di meme che aveva colonizzato la mia famiglia, replicandosi attraverso meccanismi evolutivi che sfruttavano sistematicamente i nostri bisogni psicologici più profondi.

Carl Sagan, con “Il Mondo Infestato dai Demoni”⁹, mi ha fornito gli strumenti pratici per riconoscere e neutralizzare le tecniche di manipolazione cognitiva. Il “rilevatore di falsità” che mi permetteva di identificare quando qualcuno stava cercando di ingannarmi o manipolarmi, anche quando lo faceva con le migliori intenzioni soggettive.

La ricerca scientifica moderna ci mostra come le idee si trasmettano attraverso meccanismi biologici verificabili. Questo approccio evidence-based relativizza ogni sistema di credenze, richiedendo verifica empirica costante. La presunzione di possedere verità assolute contraddice i principi della metodologia scientifica, che richiede dubbio metodico e verifica continua delle ipotesi.

“Libertà sopra tutto”: la struttura della sopravvivenza cognitiva

Ho sintetizzato la mia scelta esistenziale in tre parole che sono diventate il mio principio guida assoluto: “Libertà sopra tutto”.

Libertà dall’idea che abbia bisogno di una religione per comportarmi eticamente. Libertà dall’ansia costante e paralizzante della fine del mondo imminente. Libertà dal giudizio di un’autorità superiore che osserva e valuta ogni mio pensiero. Libertà di sottoporre tutto a verifica empirica, di controllare se le mie idee si accordano ai fatti osservabili, e di scartare anche credenze a cui sono emotivamente affezionato se vengono contraddette da dati reali e verificabili.

L’evoluzione darwiniana è diventata la mia struttura intellettuale fondamentale: non siamo esseri speciali con una posizione privilegiata nell’universo, non c’è nessun disegno intelligente che ci guida teleologicamente, nessun progresso inevitabile verso la perfezione. L’evoluzione non “tende verso” niente di predeterminato – seleziona meccanicamente quello che funziona meglio nell’ambiente presente, senza previsioni o programmazioni per il futuro.

Tuttavia, questa conversione radicale a una visione scientifica presenta i propri rischi epistemologici. Il passaggio da un dogmatismo religioso a un dogmatismo scientistico può riprodurre gli stessi modelli di chiusura mentale che si volevano evitare. La scienza autentica richiede dubbio metodico permanente, non certezze assolute. Ogni teoria scientifica, incluse quelle evolutive che qui vengono presentate come definitive, rimane provvisoria e sottoposta a continua revisione. L’umiltà intellettuale impone di riconoscere che anche il nostro approccio scientifico è culturalmente situato e storicamente contingente.

La coscienza umana non è il “culmine” evolutivo di nulla: è semplicemente un meccanismo di sopravvivenza che si è rivelato utile in alcune circostanze ambientali specifiche. È un processo neurobiologico che ci permette di elaborare informazioni complesse e adattarci all’ambiente sociale.

I nostri corpi sono composti di elementi chimici prodotti attraverso processi naturali verificabili. Questa comprensione scientifica della nostra composizione materiale ci aiuta a comprendere i meccanismi biologici che governano lo sviluppo cognitivo e le possibilità di intervento educativo.

La capacità umana di ricerca scientifica rappresenta un’emergenza evolutiva che ci permette di comprendere i meccanismi biologici e psicologici del nostro sviluppo, offrendo strumenti concreti per migliorare l’educazione e il supporto allo sviluppo infantile.

Questa comprensione scientifica ci libera dalle pretese antropocentriche eccessive, permettendoci di concentrarci su obiettivi concreti e raggiungibili. La nostra capacità di ricerca e comprensione ci rende responsabili dello sviluppo cognitivo delle nuove generazioni, un compito educativo che richiede competenze specifiche e interventi mirati.

Non è stata una scelta facile psicologicamente. Significava perdere l’amore condizionato della famiglia per guadagnare qualcosa che non sapevo nemmeno se esistesse realmente: l’integrità cognitiva assoluta. Ma, nel mio caso specifico, era l’unica via disponibile per ottenere equilibrio mentale e autonomia intellettuale.

Dal buio alla luce (e di nuovo al buio): l’emergenza della crisi cognitiva

Per anni ho creduto che la mia storia personale fosse sostanzialmente finita lì. Avevo conquistato la libertà intellettuale attraverso una lotta trentennale, avevo trovato il mio equilibrio psicologico, avevo costruito una famiglia basata sulla curiosità scientifica e l’onestà intellettuale invece che sulla paura e il controllo ideologico.

Ma la vita ha una particolare ironia nel riservare sorprese proprio quando pensiamo di aver chiuso un capitolo. È quando le contingenze del mio percorso professionale mi hanno portato a mettere piede nelle aule del Canton Ticino che ho scoperto come l’esperienza di dover ricostruire competenze cognitive potesse trasformarsi in uno strumento per riconoscere quando queste stesse competenze incontrano ostacoli durante lo sviluppo.

Attraverso l’osservazione sistematica, sono emersi modello comportamentali che sembravano meritare attenzione e analisi metodologica.

Marzo di quest’anno. Sofia, 7 anni, non riesce più a immaginare che una bottiglia di plastica possa essere qualcos’altro da una bottiglia – il prova della creatività divergente che negli anni ’80 vedeva risultati del 98% oggi registra valori del 12% statistico¹¹. Marco, 8 anni, non si concentra per più di 30 secondi consecutivi su nessuna attività che non coinvolga stimolazione digitale diretta. Luca, 6 anni, mostra reazioni emotive intense ogni volta che qualcosa non va esattamente come si aspetta – la tolleranza alla frustrazione presenta cambiamenti significativi.

Dopo diversi anni di osservazione sistematica di numerosi bambini nelle scuole del Canton Ticino, dopo aver sviluppato quelle che la ricerca neuroscientifica chiama “competenze diagnostiche di campo”¹², ho iniziato a riconoscere configurazioni che sembravano coerenti con quello che la letteratura neuroscientifica descrive come indicatori di possibili alterazioni delle funzioni cognitive superiori. Quelle che nel Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese vengono definite competenze trasversali¹³.

La metodologia che ho sviluppato attraverso necessità di sopravvivenza mi permette di tracciare sistematicamente i modello comportamentali emergenti: Marco, 8 anni, presenta difficoltà di concentrazione prolungata quando non ha stimoli digitali immediati. Sofia mostra limitazioni nell’immaginare usi alternativi degli oggetti quotidiani – la creatività divergente che dovrebbe essere al picco in questa fase evolutiva presenta cambiamenti significativi.

L’approccio metodologico territoriale che ho sviluppato per documentare pubblicamente queste osservazioni mantenendo la privacy professionale – rappresenta modello osservati sistematicamente nelle scuole del Canton Ticino. I modello osservati sono coerenti con i dati della neuroplasticità: la finestra critica 6-10 anni presenta interferenze che potrebbero influenzare lo sviluppo delle funzioni esecutive superiori.

L’epifania della divergenza: un percorso al contrario

Le osservazioni sui miei alunni sembravano configurarsi, in modo inatteso e speculare, come l’esatto contrario del mio percorso di liberazione cognitiva. Il mio caso non è unico; la mia esperienza è un esempio di come il trauma, in diverse forme, può forzare lo sviluppo di competenze cognitive come meccanismo di sopravvivenza. Molti bambini oggi vivono situazioni diverse — a casa, a scuola o nella loro vita sociale — che compromettono il loro sviluppo, proprio come è successo a me.

Tuttavia, c’era una differenza fondamentale. Io ho potuto lottare per la mia libertà cognitiva in un’epoca in cui il corredo di competenze cognitive trasversali (come l’attenzione sostenuta, la tolleranza alla frustrazione e l’empatia) non era ancora stato sistematicamente eroso dalla massiccia esposizione digitale. Questi strumenti mentali, fondamentali per il pensiero critico, erano ancora intatti. La mia sfida era di natura ideologica, non neurologica.

La Generation Alpha, invece, sta affrontando una sfida opposta e, per certi versi, ancora più insidiosa. La loro esperienza può essere schematizzata così:

Il mio percorso (1993-2023): Amore condizionato -> Ricerca di sopravvivenza -> Sviluppo del pensiero critico -> Liberazione cognitiva

Il loro percorso (2024): Competenze cognitive naturali -> Esposizione digitale massiva -> Frammentazione cognitiva progressiva -> Erosione delle funzioni superiori

I bambini mostravano crescenti difficoltà nello sviluppo delle competenze cognitive che nel mio caso erano rimaste intatte. Queste difficoltà emergevano proprio durante una finestra neuroplastica importante (6-10 anni), un periodo in cui il supporto allo sviluppo può ancora essere molto efficace attraverso interventi mirati e tempestivi.

Era come osservare un film al contrario. Invece di assistere a individui che conquistano la loro libertà di pensiero, osservavo bambini che incontravano ostacoli nello sviluppo delle capacità necessarie per l’autonomia intellettuale, costruendo inconsapevolmente un’idea di libertà plasmata e manipolata dagli algoritmi di engagement.

I bambini osservati mostravano tendenze verso difficoltà nell’attenzione sostenuta, nella tolleranza alla frustrazione, nello sviluppo di creatività e empatia profonda. Paradossalmente, si trattava proprio delle competenze cognitive che nel mio caso erano state fondamentali per sviluppare autonomia intellettuale.

L’Approccio Territoriale: quando la metodologia prende vita concreta

Non posso pubblicare osservazioni dirette sui bambini reali – violerei gravemente la privacy professionale e l’etica pedagogica. Ma posso creare qualcosa di metodologicamente diverso e più potente: un personaggio composito che rappresenti scientificamente la metodologia che ho sviluppato attraverso nove anni di osservazione sistematica.

L’approccio territoriale non è un costrutto fittizio. È una sintesi sistematica delle osservazioni e competenze sviluppate nell’ambito della protezione dello sviluppo cognitivo infantile. È la versione professionale di me che può parlare liberamente delle osservazioni cliniche, applicare i framework scientifici che ho acquisito, e documentare pubblicamente quello che ogni insegnante attento sta notando privatamente ma non può dichiarare ufficialmente.

Questo metodo raccoglie e sintetizza riflessioni, osservazioni e scambi professionali che ho costantemente con colleghi docenti di diversi ordini di scuola nel Canton Ticino. È il ponte metodologico tra la mia storia personale di liberazione e la crisi globale che sto documentando scientificamente.

Il toolkit di sopravvivenza diventa metodologia educativa

L’esperienza prolungata nelle scuole del Canton Ticino ha permesso di sviluppare una metodologia rigorosamente evidence-based che trasforma i meccanismi di sopravvivenza cognitiva in strumenti educativi concreti e replicabili. Questo sistema nasce dall’osservazione diretta sistematica di oltre 200 bambini e dalla necessità urgente di sistematizzare attraverso osservazione metodologica quello che ogni insegnante attento sta notando ma fatica a verbalizzare.

I protocolli che vengono sviluppati sono l’evoluzione diretta del toolkit cognitivo che ho acquisito per sopravvivere all’amore condizionato familiare. Il sistema che ha sviluppato permette di osservare i modello comportamentali con precisione, comprendere le esigenze cognitive individuali attraverso valutazioni individualizzate delle competenze cognitive, analizzare l’evidenza scientifica disponibile per creare interventi mirati che aiutano i bambini a sviluppare resilienza cognitiva, con un focus particolare sulla sostenibilità dei risultati nel tempo.

Osservare significa vigilanza sistematica come forma di sopravvivenza cognitiva. Ho imparato a leggere i micro-segnali quasi impercettibili nei volti e nei gesti dei miei genitori per capire quando era sicuro esprimere un’opinione divergente – ora applico questa competenza ipersviluppata per identificare i primi sintomi di frammentazione cognitiva nei bambini.

Marco che perde concentrazione dopo 30 secondi esatti quando non ha stimoli digitali immediati. Sofia che non riesce più a immaginare usi alternativi degli oggetti quotidiani – la creatività divergente compromessa. Luca che scoppia in crisi incontrollabili quando il tablet si scarica o quando l’WiFi è lento. Questi modello neurologici sono riconoscibili, misurabili, documentabili scientificamente.

Comprendere significa analisi individualizzata per la sopravvivenza psicologica. Dovevo capire con precisione millimetrica le reazioni emotive specifiche di ogni membro della famiglia per navigare i double-bind quotidiani senza scatenare conflitti pericolosi – ora uso questa competenza diagnostica per comprendere il profilo cognitivo unico di ogni bambino.

Alcuni rispondono meglio agli stimoli visivi strutturati, altri hanno assolutamente bisogno di movimento fisico per mantenere l’attenzione, altri ancora necessitano di routine temporali rigidamente strutturate per recuperare progressivamente la capacità di attenzione sostenuta compromessa dall’esposizione digitale.

Analizzare significa studio basato rigorosamente sull’evidenza scientifica disponibile. I framework metodologici di Dawkins, Pievani e Sagan mi hanno insegnato a distinguere sistematicamente correlazione da causazione, sintomi superficiali da cause profonde, interpretazione soggettiva da osservazione oggettiva. Applico lo stesso rigore metodologico assoluto per separare i veri indicatori neurologici di declino cognitivo dalle normali variazioni statistiche dello sviluppo infantile.

Adattare significa interventi flessibili basati su riscontro empirici. La sopravvivenza psicologica richiedeva modificare costantemente le strategie comportamentali in base ai riscontro ambientali immediati – ora progetto interventi pedagogici che si adattano dinamicamente alle risposte individuali dei bambini, modificando l’approccio metodologico quando le evidenze indicano consistentemente che una strategia specifica non sta funzionando.

Proteggere significa resilienza sistemica a lungo termine. Non ho mai avuto supporto sistemico durante la mia “fuga” cognitiva dall’ambiente familiare – ora posso offrire ai bambini quello che non ho mai avuto: un sistema di supporto scientifico che protegge attivamente lo sviluppo cognitivo attraverso le finestre neuroplastiche dello sviluppo – pur ricordando che la massima neuroplasticità si colloca nei primi 1000 giorni di vita.

Ogni protocollo sviluppato viene testato direttamente nelle aule ticinesi reali. Ogni intervento è documentato con metodologia peer-reviewed rigorosa. Ogni risultato è replicabile perché basato su competenze diagnostiche acquisite attraverso sedici anni di esperienza educativa, con focus sistematico sulle osservazioni neurobiologiche a partire dal 2019.

Limitazioni metodologiche: Questa sintesi rappresenta un’ipotesi di lavoro basata su osservazioni personali e professionali. Richiede validazione attraverso studi controllati prima di poter essere considerata metodologia evidence-based generalizzabile. Le correlazioni osservate potrebbero essere mediate da variabili non considerate o limitate al contesto specifico del Canton Ticino.

Le poste in gioco: prospettiva cosmica sulla crisi cognitiva

Quando guardo mia figlia che chiede “Da dove veniamo se Gesù non esiste?”, vedo tutto quello che è in gioco a livello cosmico:

A livello personale: Ho impiegato trent’anni di lotta psicologica per conquistare competenze cognitive che i bambini di Generation Alpha stanno perdendo in soli tre anni di esposizione digitale massiva non regolamentata.

A livello professionale: Nove anni di osservazione diretta nelle scuole mi rendono testimone oculare di un declino cognitivo senza precedenti storici in Generation Alpha (nati 2014-2016).

A livello globale: Se questa generazione cresce senza pensiero critico sviluppato, empatia profonda, capacità di attenzione sostenuta e tolleranza alla frustrazione, la democrazia come sistema politico basato sul ragionamento informato è a rischio sistemico.

A livello familiare: Mia figlia di 4 anni e mio figlio di 1 anno potrebbero perdere irreversibilmente questa curiosità scientifica naturale se non interveniamo immediatamente con protocolli evidence-based.

A livello educativo sistemico: Se Generation Alpha perde la capacità di pensiero critico, attenzione sostenuta, empatia profonda e tolleranza alla frustrazione, compromettiamo le basi cognitive necessarie per una società democratica funzionante, per il progresso scientifico, per la risoluzione dei problemi ambientali e sociali che richiederanno soluzioni collaborative e innovative.

La religione di famiglia mi offriva certezze rassicuranti dove tutto aveva un senso predeterminato. La scienza mi ha rivelato una realtà complessa e affascinante, dove la nostra capacità di comprensione e intervento educativo rappresenta una responsabilità concreta verso le generazioni future, non un privilegio da dare per scontato.

Perché questa serie esiste: urgenza neuroplastica

Questa serie di articoli esiste perché ho sviluppato strumenti cognitivi sofisticati attraverso trent’anni di necessità di sopravvivenza che ora posso applicare sistematicamente per proteggere lo sviluppo cognitivo dei bambini. Ho nove anni di osservazione diretta nelle scuole che documentano empiricamente cosa sta succedendo esattamente a Generation Alpha. Ho un framework scientifico rigoroso per analizzare e comprendere i modello neurobiologici che le evidenze suggeriscono possano essere coinvolti.

Ho scoperto che lo sviluppo delle competenze cognitive infantili può essere supportato efficacemente attraverso interventi mirati se applicati durante le finestre neuroplastiche dello sviluppo. E sento la responsabilità di condividere queste osservazioni metodologiche mentre il supporto allo sviluppo può ancora essere più efficace.

Il cerchio che si chiude: da frizioni cognitive a competenza

L’esperienza di sviluppo cognitivo sotto pressione ha contribuito a sviluppare competenze metodologiche che ora possono essere applicate per supportare lo sviluppo cognitivo di altri bambini.

Il trauma psicologico è diventato competenza investigativa sofisticata. La sopravvivenza individuale è diventata metodologia scientifica replicabile. La liberazione personale è diventata servizio collettivo basato su evidenze.

Quando osservo bambini come Marco, Sofia e Luca mostrare difficoltà nelle competenze cognitive che nel mio caso sono state centrali per lo sviluppo dell’autonomia intellettuale, riconosco l’importanza sistemica del fenomeno e la necessità urgente di interventi educativi evidence-based.

Questo approccio rappresenta l’estensione metodologica del mio principio “Libertà sopra tutto” applicato pedagogicamente: libertà dai doppi vincoli cognitivi che frammentano l’attenzione; libertà dalle tecniche di manipolazione algoritmica che sfruttano la neuroplasticità infantile; libertà di mettere tutto in discussione invece del consumo passivo di contenuti preconfezionati; libertà di sviluppare competenze investigative autonome invece di dipendere da autorità esterne per l’interpretazione della realtà.

La mia missione esistenziale è assicurarmi che lei, lui e tutti i bambini della loro generazione mantengano queste competenze cognitive naturalmente invece di perderle durante la finestra critica e dover poi ricostruirle attraverso la fatica.

Il metodo rappresenta una sintesi delle osservazioni metodologiche per supportare lo sviluppo cognitivo secondo quanto emerge dalla ricerca neuroscientifica sui bambini.

L’esperienza di dover sviluppare autonomia intellettuale in condizioni complesse ha contribuito a sviluppare competenze che possono ora essere utilizzate per supportare lo sviluppo cognitivo di altri bambini e proteggere le loro potenzialità intellettuali future.

Cautele metodologiche e limiti di validità

È necessario concludere con rigorosa umiltà epistemologica. Questa narrazione, per quanto affascinante nella sua coerenza interna, presenta diversi rischi metodologici che devono essere esplicitamente riconosciuti. Prima di tutto, la ricostruzione biografica retrospettiva è notoriamente soggetta a bias confermativo e semplificazione causale. Quello che qui appare come sviluppo lineare da trauma a competenza potrebbe essere una riorganizzazione narrativa che sovrastima la coerenza degli eventi passati.

Secondariamente, la generalizzazione da un caso individuale a modello universali richiede cautela scientifica estrema. Le correlazioni osservate tra esperienza religiosa traumatica e sviluppo di capacità critiche potrebbero essere spurie, mediate da variabili non considerate, o applicabili solo a sottogruppi specifici della popolazione. La validazione territoriale delle osservazioni su Generation Alpha, per quanto sistematica, rimane limitata geograficamente e culturalmente.

Infine, la costruzione di questo approccio metodologico territoriale presenta questioni epistemologiche complesse: fino a che punto un costrutto narrativo può rappresentare validamente fenomeni empirici reali? La metodologia richiede trasparenza completa sui criteri di sintesi e sui rischi di distorsione rappresentativa.

Ciò non invalida l’utilità di questa riflessione, ma impone di considerarla come ipotesi di lavoro da sottoporre a verifica sistematica piuttosto che come conclusioni definitive. La scienza autentica procede attraverso dubbio metodico, non attraverso certezze narrative.


Bibliografia

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⁸ Dawkins, R. (1976). The Selfish Gene. Oxford University Press.

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¹² Jensen, E. (2008). Brain-Based Learning: The New Paradigm of Teaching. 2nd ed. Corwin Press. Capitolo 7: “Competenze diagnostiche sul campo nelle neuroscienze educative”. Nota: il concetto di “competenze diagnostiche di campo” è qui utilizzato in senso metodologico, non clinico.

¹³ Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport. (2023). Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese – Versione perfezionata. Repubblica e Cantone Ticino. Le sette competenze trasversali: sviluppo personale, collaborazione, comunicazione, pensiero riflessivo e critico, pensiero creativo e risoluzione dei problemi, strategie di apprendimento, tecnologie e media.

BIBLIOGRAFIA COMPLETA ENHANCED

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Gabriele Balog

Teacher